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Investire nelle nuove generazioni. L’approccio di Gøsta Esping-Andersen

di Danilo Bolano
Questo articolo prende spunto da recenti pubblicazioni del sociologo Gøsta Esping-Andersen e tenta di riassumerne, senza presunzione di esaustività, le sue tesi circa la necessità di ridisegnare i sistemi di welfare per fronteggiare le nuove sfide della società moderna, come la bassa natalità, l’invecchiamento della popolazione e l’evoluzione dell’economia dell’informazione.

Secondo il sociologo danese, i sistemi di welfare vigenti risultano estremamente squilibrati a favore dei settori più anziani della popolazione con una scarsa attenzione alle generazioni più giovani che ricevono investimenti marginali e sempre minori anche se le società contemporanee necessitano di generazioni future di lavoratori più forti e produttivi che riescano a mantenere quote consistenti e crescenti di popolazione dipendente.
Il tentativo di massimizzare la fertilità e quindi il solo accrescere numericamente la popolazione, quello che Becker chiama n nella sua funzione di massimizzazione, non è sufficiente ma bisogna puntare, adoperando sempre la nomenclatura di Becker, su q cioè sulla qualità dei bambini, sul capitale umano, unico vero motore di crescita nelle società contemporanee. Il capitale umano costituisce infatti sia un imput per la produzione, se lo intendiamo come stock di capacità, sia comporta una crescita della società dal punto di vista dell’innovazione e del progresso tecnico (Mincer 1989).

Secondo Esping-Andersen, nel processo di sviluppo dei sistemi di welfare, i policy maker hanno creduto che garantire il diritto allo studio estendendo l’istruzione alla totalità della popolazione fosse uno strumento sufficiente per promuovere la conoscenza e garantire pari opportunità tra i cittadini al netto delle differenze sociali ed ereditarie. Tale ragionamento si è dimostrato tuttavia fallace: l’istruzione gratuita e garantita non ha fornito le medesime chance di successo a tutti gli individui, ma queste continuano invece ad essere fortemente influenzate dall’ambiente in cui il bambino nasce e cresce, ben prima dell’età scolare quando entra realmente in contatto con il welfare state. Come dimostrato in numerosi studi infatti non c’è stata un’equalizzazione delle opportunità ma i legami tra le origini, definite “eredità sociale”, e le occasioni di vita del bambino sono forti così oggi come nelle generazioni precedenti.

Con lo sviluppo dell’economia dell’informazione gli standard educativi richiesti per l’accesso alle opportunità lavorative e di carriera si sono notevolmente innalzati. Oltre all’istruzione “formale” che continua a ricoprire un ruolo fondamentale, basti pensare che l’OECD nel 2001 ha stimato che il rischio di disoccupazione è doppio tra i cittadini che hanno raggiunto al massimo la licenza media, nuove forme di capacità stanno acquistando sempre più valore. Si tratta di quella che viene definita “intelligenza emotiva” o “capacità cognitiva”. Se l’istruzione formale è importante soprattutto nelle prime fasi della carriera lavorativa, le capacità cognitive assumono un ruolo fondamentale lungo l’intera vita lavorativa. Nell’economia dell’informazione requisiti fondamentali sono riuscire a cogliere, capire e interpretare i dati e le informazioni che ci circondando in maniera rapida e precisa, sapersi adattare ai continui cambiamenti tecnologici e sviluppare la propria competitività attraverso processi di life long learing. Queste capacità cognitive risultano quindi precondizioni necessarie per il successo scolastico prima e per quello lavorativo dopo nella moderna società dell’informazione.
Come dimostrato in diversi studi (ad esempio vedasi Bewles e altri, 2001) le capacità cognitive sono sia innate e trasmesse geneticamente ma risentano fortemente anche degli stimoli ambientali che il bambino percepisce fin dalla più tenera età. Risulta evidente quindi che per una maggiore efficienza del sistema di welfare e per una crescita della società è necessario intervenire ben prima dell’età scolare per un reale accrescimento del capitale umano del paese. Per far ciò, secondo Esping-Andersen bisogna ridurre il peso dell’eredità sociale che grava sulle nuove generazioni.
La relazione tra famiglia di origine e le opportunità di vita dei figli è ampiamente confermata dai risultati riportati in letteratura con due elementi di fondo che emergono come centrali: il denaro e la cultura. La relazione, calcolata come elasticità, tra reddito dei genitori e quello dei figli (da adulti) è particolarmente forte come mostrato dai bassissimi livelli di mobilità (economica) intergenerazionale (Corak, 2006). Comparando Paesi differenti, è emerso come il peso delle origini sociali sia più forte nelle società non egualitarie come Stati Uniti, Canada ove nascere in una famiglia povera o in una ricca ha effetti determinanti sullo sviluppo futuro della propria vita, piuttosto che in Scandinavia o Germania.
Altri studi, incentrati in particolare sugli Stati Uniti, hanno mostrato gli effetti negativi della povertà infantile sulle future chance di vita. Si è stimato che bambini poveri frequenteranno la scuola due anni in meno dei coetanei non poveri ed è 4 volte più probabile che non completi la scuola un bambino povero che uno non povero, con un effetto a catena sulla crescita successiva: guadagni più bassi o maggiore rischio di rimanere disoccupati, livello generale di salute peggiore, minore capacità di risparmio e così via. Saranno cioè con maggiore probabilità a loro volta genitori poveri.
In tal senso una delle strade da percorrere per potenziare il capitale umano e quindi le possibilità di sviluppo del paese è di fornire alla società strumenti utili per uscire dalla povertà. 
Sebbene le restrizioni economiche e l’insicurezza che uno stato di povertà produce nei genitori meno propensi a progettare il futuro dei propri figli abbiamo un effetto significativo sullo sviluppo delle capacità cognitive dei bambini, da sole non giustificano, secondo il sociologo danese, la scarsa mobilità intergenerazionale osservata. La ricchezza familiare potrebbe dunque non essere il meccanismo decisivo che guida i risultati formativi e lavorativi e quindi lo sviluppo del capitale umano di un paese.

Accanto all’elemento economico si palesa quello culturale - familiare. Come evidenziato anche dai dati OECD (2003) le performance scolastiche sono fortemente condizionati dall’ambiente culturale della famiglia di origine che funge da stimolo per la crescita culturale dell’infante.
In letteratura, un modo per misurare il livello di cultura in un ambiente familiare è osservare il numero di libri presenti in casa. Alcune analisi statistiche mostrano la presenza di una correlazione positiva tra libri presenti in casa e risultati scolastici ottenuti dal bambino (misurati tramite la classificazione PISA - Program for International Student Assessment) con effetti più elevati, sia come magnitudine che come livello di significatività, rispetto agli effetti di reddito dovuti allo status socioeconomico dei genitori.
La letteratura dimostra la presenza di un effetto doppio dell’eredità sociale che influenza da un lato direttamente le performance scolastiche e dall’altro lo sviluppo delle capacità cognitive del bambino. Confrontando il peso del livello di istruzione dei genitori sui risultati scolastici dei figli su tre coorti di popolazioni (prima coorte nati tra 1970-75, seconda coorte 1955-64, terza coorte 1945-54) in Gran Bretagna, Stati Uniti, in Germania e nei tre paesi Scandinavi (dati IALS - International Adult Literacy Survey) Esping-Andersen (2004) ha dimostrato che per i primi tre paesi l’effetto dell’eredità sociale rimane pressoché costante negli ultimi 50 anni a differenza dei Paesi Scandinavi ove l’effetto diminuisce sensibilmente nelle coorti più giovani. Ad esempio in Danimarca la chance di un bambino appartenente alla coorte più giovane con un padre con livello di istruzione basso (livello ISCED inferiore a 3) di accedere alla scuola secondaria è doppia rispetto a quanto registrato per la prima coorte e quattro volte più elevata di un coetaneo tedesco o americano.
Tale risultato positivo è da ascriversi agli investimenti che da decenni caratterizzano i paesi scandinavi, Danimarca in testa, per fornire servizi quantitativamente e qualitativamente adeguati di assistenza ai bambini in età prescolare. Essendo i tassi di occupazione femminile particolarmente elevati, tutti i bambini, indipendentemente dal background socio-economico e culturale della famiglia di origine, sono stati esposti ai medesimi imput e stimoli cognitivo-educativi rendendoli realmente omogenei nel momento dell’accesso all’educazione formale fornendo loro le medesime opportunità nel corso della vita.

Per fronteggiare l’aspetto economico dell’eredità sociale che grava sulle nuove generazioni visto che l’efficacia di politiche di tipo redistributivo è dubbia anche per la presenza di possibile effetti di secondo ordine, come la riduzione dell’offerta di lavoro, sono stati suggerite politiche di supporto al lavoro femminile che come dimostrato in alcuni recenti studi riducono di 3-4 punti l’incidenza della povertà infantile in particolare tra le madri sole, sebbene esistano anche in questo caso possibili effetti negativi sui livelli di istruzione  dei figli (nota 1). Per quanto concerne invece l’aspetto culturale dell’eredità sociale, risulta necessario implementare politiche attive che rendano omogenei gli stimoli cognitivi ricevuti dai bambini riducendo l’influenza del livello culturale della famiglia di origine.
Indipendentemente se l’effetto delle politiche di fronteggiamento alla povertà e di supporto al lavoro femminile sia positivo o negativo, tutte le nazioni devono fronteggiare livelli crescenti di occupazione femminile e quindi dovranno implementare politiche sociali duplici che da un lato limitano le eventuali esternalità negative del lavoro femminile e dall’altro favoriscano la cura dei bambini.
Se per il primo aspetto si possono prevedere periodi di aspettativa più lunghi e favorire lavori flessibili, per l’assistenza ai bambini, paesi come il nostro, ove il welfare è chiaramente a vantaggio delle coorti più anziane e gli investimenti sul capitale umano e l’istruzione sono scarsi e incentrati sulla “scuola dell’obbligo”, dovrebbero ripensare al proprio intero assetto di welfare concentrando le risorse anche sui bambini in età prescolare (fino ai 6 anni di età), periodo in cui si sviluppano le capacità cognitive di quelli che saranno i lavoratori di domani. Come dimostrato in recenti studi econometrici (Carneiro e Heckman, 2003), il ritorno sugli investimenti effettuati sui giovani si riduce esponenzialmente con il crescere dell’età. Si stima che se l’effetto sociale positivo dell’investimento nella scuola è pari al 10%, investire sui bambini in età prescolare può portare un ritorno superiore al 20%. Al contrario, osservando i dati OCSE, emerge come la spesa per l’istruzione, pur rimanendo sostanzialmente bassa, cresca monotonicamente con il livello di istruzione fino alla scuola secondaria. In Italia, ad esempio, nel 2006 la spesa per l’istruzione pre-primaria (pre-primarry education secondo la classificazione ISCED 97) è stata pari ad un terzo di quanto previsto per la scuola secondaria di secondo grado (upper secondary education) ed a livello aggregato è più bassa del 15-20% della media dei paesi Ocse.
Secondo Esping-Andersen dunque investire nelle nuove generazioni vuol dire in primo luogo focalizzarsi sui bambini in età prescolare. Garantire un accesso ampio o meglio totale ad un assistenza giornaliera di alta qualità anche ai bambini al di sotto dei 3/6 anni produce una doppia  esternalità positiva: da un lato può favorire l’ingresso o il permanere delle donne nel mercato del lavoro favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia e dall’altro può “liberare” le nuovi generazione da quel fardello dell’eredità sociale che come dimostrato ampiamente condiziona in maniera netta le capacità cognitive, le performance educative e lavorative e dunque lo sviluppo del capitale umano di un paese. Investire in questa fascia di età dovrebbe dunque essere una priorità per gli Stati anche e soprattutto in questa fase di crisi economica. Le teorie economiche ci insegnano il ruolo centrale della qualità del capitale umano per uno sviluppo sostenuto e continuo nelle società moderne. Se si tiene conto che un Paese come il nostro è caratterizzato da livelli di fecondità bassissimi, costante invecchiamento della popolazione, bassi tassi di innovazione e bassi livelli di occupazione femminile, per garantire crescita e stabilità al paese bisogna puntare sulla qualità del suo capitale umano. Una delle strade da adottare la strategia suggerita da Esping-Andersen: puntare sui bambini in età prescolare investendo sugli asili nido o su altre forme di assistenza extrafamiliari garantendo loro l’accesso ad una assistenza giornaliera di qualità che si traduce in un accrescimento delle capacità cognitive delle nuove generazioni e del capitale umano e quindi della futura produttività del nostro paese.

 
Note
1)  E' necessario ricordare infatti che la letteratura ha evidenziato possibili effetti secondari negativi dell’intensità del lavoro dei genitori, materno in particolar modo (madri che lavorano full time), sul livello di istruzione dei figli. La ricerca empirica non ha però fornito risultati univoci ed in questa sede per brevità tale aspetto non viene trattato.

Bibliografia
Bowles S., Gintis H., e M. Osborne, “The determinants of earnings: A behavioural approach”, in Journal of Economic Literature, 2001.
Becker, G. (1981), “A treatise on the Family”, Harvard Univeristy Press, Cambridge MA.
Carneiro P., e Heckman J. (2003), “Human capital policy”. In J.Heckman e A. Krueger, Inequality in America, MIT Press, Cambridge MA.
Corak, M. (2006), “Do poor children become poor adults? Lessons from a Cross Country Comparison of Generational Earnings Mobility”, IZA DP No. 1993
Esping-Andersen G. (2002), “Why we need a new welfare state”, Oxford University Press, Oxford.
Esping-Andersen G. (2004), “Unequal opportunities and the mechanisms of social inheritance”
Esping-Andersen, G. (2007), “Investing in children and their Life Chances”
Mincer, J. (1989), “Human Capital Responses to Technological Change in the Labor Market”, National Bureau of Economic Research, Cambridge MA.
OECD (2001), “Education at a Glance”, Parigi.
OECD (2003), “Knowledge and Skills for Life”, Parigi

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