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Synergia Magazine

Buone prassi senza esperienze

di Stefano Laffi

Mutamento Sociale n.2 - Ottobre 2004

 

Best practices, buone prassi, benchmarking fra servizi: le nuove parole d'ordine sono ovunque, nei documenti dell'UE, nelle dichiarazioni di qualunque sensato amministratore, nelle richieste di ogni bando di gara e nelle promesse di ogni progetto di intervento sociale. Il concetto è al limite dell'ovvio - imparare dai migliori, codificare cosa ha buon esito, confrontarsi a fronte di problemi comuni, ecc. - e alimenta diversi mondi: l'informazione giornalistica, la consulenza aziendale, la formazione professionale, la ricerca su case studies si nutrono di questa caccia all'eccellenza locale, all'esemplarità per tutti.
Frasi sentite e lette tante volte - il 'modello Zurigo', il 'facciamo come a Londra!', l''impariamo dai giapponesi!' - sono diventate sistema, fantasia collettiva per la soluzione di problemi. Anzi: i nidi di Reggio Emilia, la qualità della vita di Bolzano, Todi come città ideale sono diventati non solo punto di riferimento comune, ma prodotto di esportazione oggi meglio quotato della Fiat e dei distretti industriali.

La pubblica amministrazione italiana, priva di una formazione ad hoc, dislocata in territori storicamente orgogliosi del proprio, in servizi che non comunicano da una stanza all'altra e sotto una classe politica che vuole soprattutto rendicontare successo locale, scopre ora il confronto, scommette sull'apprendimento organizzativo, si apre allo scambio di idee per capire cosa funziona a fronte di pari esperienze.

E' un'ottima notizia; per chi fa ricerca, consulenza e formazione è l'unica condizione possibile di crescita. Ci vuole però più onestà, anche in noi. La pecora Dolly è deceduta; la clonazione ha poco senso nei servizi; il format è soprattutto un buon affare per chi lo vende; la fantasia di uno sconto sul pensiero perché altrove è già tutto fatto è una tentazione enorme soprattutto grazie a Internet, la più grande fotocopiatrice del mondo, e viene il dubbio che ad interessare veramente sia la garanzia del successo più che il percorso di esperienza che lo precede. Perché quel percorso esperienziale, per definizione, non si copia; e la copia del solo risultato - senza una comunicazione onesta di chi lo propone e un'analisi delle condizioni di replicabilità, senza un gruppo che si forma e competenze che crescono - ha respiro brevissimo.

Come fare allora quando si vuole creare un osservatorio sociale, aprire uno sportello immigrazione, fare prevenzione nei licei sulla cocaina? Non c'è una sola risposta, per tutto quanto si è detto e per l'onestà che si dichiara, ma intanto per esperienza noi immaginiamo che possano esserci diversi ingredienti, con dosaggi che decidiamo volta per volta insieme nei percorsi di affiancamento: lo screening scrupoloso dei buoni esempi, meglio se attuato per contatto diretto e senza mediazione di marketing, l'apertura dello sguardo anche al settore privato distante per logiche di azione ma ricchissimo di soluzioni organizzative stimolanti, la sentinella vigile dell'integrazione e del coordinamento come tensione costante all'impostazione di progetti e servizi per l'utilità e le opportunità che offrono; l'intelligenza di utilizzare strumenti (di codifica, di classificazione, di valutazione, ecc.) validati in letteratura e condivisi nella rete dei servizi, la formazione di un gruppo che partecipi a tutto quanto e maturi le abilità per agire in autonomia. E se serve una fantasia è quella su se stessi: modellare la propria esperienza per dare il meglio della propria storia.


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