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Synergia Magazine

Gioventù rifiutata: come stiamo perdendo la sfida dell'integrazione sociale dei giovani di origine straniera

di Daniele Cologna
Mutamento Sociale n.2 - Ottobre 2004

A Milano si sono conclusi recentemente diversi procedimenti giudiziari relativi a uno sconcertante fatto di cronaca avvenuto tre anni fa. Nell’ottobre del 2001 un gruppo di persone di nazionalità cinese ha assalito, picchiato e accoltellato a morte un loro connazionale. Le indagini, condotte meticolosamente e con notevole perizia, hanno consentito di ricostruire in dettaglio la dinamica dell’omicidio, di stabilirne il movente e di individuarne la maggior parte dei responsabili. I colpevoli? Un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti - dei tre che sono stati identificati con sicurezza, due avevano diciassette anni, il terzo diciotto - e un adulto: la persona che li ha assoldati per punire l’uomo che intratteneva una relazione con sua moglie. I ragazzi hanno fatto quanto commissionato loro per la modica somma di cinque milioni di lire. Le testimonianze raccolte dagli inquirenti hanno permesso di delineare il profilo di una banda di giovanissimi teppisti dediti da mesi a estorsioni e rapine a danno di propri connazionali. Un gruppo di amici in parte già consolidatosi in Cina, i cui leader risiedevano a Milano, ma cui facevano riferimento anche piccoli sottogruppi di ragazzi di medesima provenienza a Torino, Brescia, Modena, Prato e Firenze. Tutti giovanissimi, tutti ricongiuntisi ai genitori alla fine degli anni novanta, adolescenti inseriti direttamente nella scuola media. Due di loro, oggi ventenni, sono stati condannati a scontare più di dieci anni di carcere per concorso in omicidio, con l’aggravante della premeditazione.

Ragazzini cinesi che intimidiscono, picchiano e rapinano adulti della generazione dei propri padri, quella “generazione del sacrificio‿ che ha creato migliaia di imprese familiari in tutta Italia e che comincia, con fierezza, a mandare i propri figli all’università? Diciottenni disposti a uccidere per quattro soldi, per poi continuare la propria carriera di piccoli delinquenti come se niente fosse? Per chi ha studiato i giovani “figli dell’immigrazione‿ nel contesto milanese e i loro percorsi di inserimento socioculturale a cavallo tra anni novanta e anni duemila (oggetto di un’indagine di Synergia pubblicata nel 2003), traendo conclusioni sostanzialmente positive ed ottimistiche sulle prospettive future della seconda generazione in Italia, sono fatti che spiazzano e preoccupano, che lasciano l’amaro in bocca. Fino a qualche anno fa la società italiana sembrava capace di offrire supporti magari non proprio adeguati, ma purtuttavia moderatamente efficaci, all’integrazione dei giovani d’origine straniera che le crescevano in seno. Che cosa è andato storto?

La componente minorile è in forte crescita in tutte le più numerose collettività immigrate straniere in Italia, e a Milano la sua incidenza supera abbondantemente il 20% per filippini, egiziani, cinesi, peruviani ed ecuadoriani. Nel caso dei cinesi è minorenne quasi un cinese residente su tre. E a ben vedere, indizi di un’inquietudine crescente tra i giovani immigrati non si rilevano soltanto fra i cinesi. A Genova e Milano si segnala la formazione di compagnie di giovani latinos, soprattutto ecuadoriani e peruviani, che mimano atteggiamenti da pandillero (è chiamato così chi aderisce a una pandilla o a una mara , ovvero una gang criminale giovanile latinoamericana), mentre nella capitale lombarda sono sempre più numerosi i ragazzi filippini che sfuggono ai tradizionali poli aggregativi di carattere religioso o comunitario per sperimentare una socialità meno irregimentata e condizionata dalla aspettative degli adulti. È forse presto per parlare di “disagio giovanile‿: quello che sembra evidenziarsi con chiarezza è piuttosto il bisogno di ridefinire autonomamente la propria sfera delle appartenenze, decidendo assieme a coetanei che condividono esperienze, aspirazioni e frustrazioni analoghe chi si vuole essere, come e perché. A rendere raffrontabile il vissuto di gruppi di giovani di nazionalità e cultura così diversa è la comune esperienza di una catena di eventi critici che si susseguono nel corso della loro infanzia ed adolescenza, nonché nella coincidenza delle strategie di risposta elaborate per farvi fronte:

- la precoce separazione da uno o da entrambi i propri genitori, destinata a protrarsi per lunghi anni;
- un’infanzia passata nel paese d’origine, spesso accuditi da nonni premurosi;
- una prima adolescenza caratterizzata da scarso controllo sociale e da una certa disponibilità di beni e di danaro;
- la formazione spontanea, nei paesi d’origine, di forme d’aggregazione tra coetanei che divengono il luogo privilegiato dell’esperienza e dell’elaborazione della propria identità;
- il trauma doppio della separazione dai propri nonni e del ricongiungimento con genitori ormai quasi sconosciuti;
- il disagio derivante dall’inserimento in una società inizialmente incomprensibile, acuito dall’integrazione scolastica nella scuola media, dove spesso mancano adeguati supporti all’apprendimento della lingua italiana;
- l’incapacità di stabilire un rapporto positivo con i propri genitori, con gli insegnanti e con i coetanei italiani a scuola, in conseguenza dell’incomunicabilità delle proprie esperienze, del divario generazionale e della barriera linguistica;
- il ripiego sull’in-group costituito da propri connazionali, o da coetanei di altra nazionalità ma appartenenti alla stessa koiné linguistico-culturale (è il caso dei latinoamericani), oppure ancora da coetanei con i quali si condivide un medesimo vissuto di esclusione e incomunicabilità con la realtà esterna al gruppo;
- l’elaborazione di propri codici espressivi ed affettivi, spesso desunti solo in parte dal patrimonio valoriale trasmesso dagli adulti (familiari e insegnanti), per costruire un proprio insieme di riferimenti identitari autonomo, magari in contrasto con l’orizzonte delle aspettative e delle esigenze degli adulti e delle agenzie educative.

Tutto questo certo non porta automaticamente verso l’emarginazione sociale e la devianza, ma può preparare il terreno per scontri e conflitti tra i codici “propri‿ e quelli proposti dal mondo degli adulti. Non si ha dunque a che fare con giovani “sospesi tra due culture‿, come spesso si sente ripetere, ma piuttosto con ragazzi caduti nelle crepe della spiegazione della realtà fornita loro dagli adulti. Adulti sprovvisti degli strumenti necessari per comprendere il vissuto dei propri figli, nipoti, allievi. Genitori che a volte contribuiscono - più o meno inconsapevolmente - a rendere più pesante e doloroso il processo di adattamento di questi giovani, perché propongono - e a volte impongono - valori e prassi di riferimento che hanno poca o nessuna attinenza con il loro vissuto: un problema frequente soprattutto in famiglie che hanno un orientamento conservatore, magari rafforzato da una dimensione religiosa o tradizionale che non sempre la nuova generazione condivide, o che innesca un lento e tormentoso rapporto di confronto dialettico.

A fronte della delicatezza e della potenziale violenza di questi processi di adattamento al nuovo contesto socioculturale, ai nuovi assetti familiari, a un mondo adulto spesso vissuto come ottuso - se non ostile - come può organizzarsi la società civile, come possono rispondere le istituzioni? E come evitare che questo nuovo disagio stimoli malsane strumentalizzazioni di natura politica, culturale, religiosa, economica? È nell’interesse di tutti gli italiani di oggi e di domani scongiurare l’espansione di queste sottili fratture che attraversano la sua nuova gioventù. Eppure il terreno sul quale si gioca adesso questa partita - la scuola - vede contrarsi la propria capacità di azione proprio in questi anni decisivi, anni in cui la fasca d’età in cui si evidenzia la maggiore crescita nelle popolazioni immigrate a forte vocazione familiare è quella 10-14 anni. Gli alunni stranieri in Italia oggi sono 285.000, il 3,5% della popolazione scolastica. La regione in cui sono più numerosi è la Lombardia, con 68.423 studenti stranieri, quasi il 6% del totale: 9.828 marocchini, 9.303 albanesi, 4.411 rumeni, 4.348 ecuadoriani, 3.821 cinesi… ma gli insegnanti distaccati per occuparsi dell’integrazione scolastica di questi alunni sono solo 130. Perfino scuole storicamente caratterizzate da un’incidenza rilevante di allievi stranieri - quelle situate nelle zone dell’edilizia popolare e dei bassi affitti - oggi sono assai meno ricche di iniziative e progetti di interculturalità, che in provincia di Milano sono diminuiti del 90% rispetto a tre anni fa. Le famiglie straniere che devono iscrivere alla prima media i propri figli appena ricongiunti tendono ora a rivolgersi a istituti in cui siano presenti, se non insegnanti di sostegno (“facilitatori di apprendimento‿), quantomeno numerosi connazionali, coetanei che possano far sentire i propri figli meno soli e aiutarli a interagire con insegnanti e compagni italiani. Per riuscirci, queste famiglie devono spostare la propria residenza nei distretti scolastici in cui i propri connazionali sono più numerosi, alimentando nelle maggiori città italiane fenomeni di segregazione territoriale su base etnico-nazionale finora relativamente rari o contenuti. Se poi, in risposta all’incremento degli allievi stranieri e della presenza di famiglie d’immigrati nel quartiere, gli italiani tendono a ritirare i propri figli dalle scuole e magari a cambiare zona, i rischi di una ghettizzazione strisciante aumentano.

Investire nella scuola non basta: la sfida dell’integrazione dei giovani d’origine straniera è troppo complessa e nuova perché si possa pensare di vincerla soltanto con maggiori supporti all’apprendimento linguistico, con la promozione della conoscenza e del rispetto tra persone di nazionalità, lingua, religione diversa. Ma è proprio questa la prima cosa da fare per non perdere fin d’ora tale sfida, e bisogna farla subito.

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