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Quale integrazione? Appunti per una metodologia critica del 'monitoraggio dell'integrazione'

di Daniele Cologna
Mutamento Sociale n.6 - 2005

Stando alla definizione di “integrazione" implicita nella normativa sull’immigrazione vigente in Italia, Z.A. nel 2003 poteva essere considerato un immigrato “bene integrato": occupato in posizione subordinata e non concorrenziale, documenti a posto, in grado di capire e parlare l’italiano, una vita familiare normale in un dignitoso bilocale in affitto. Arrivato clandestinamente dalla Cina nel 1997, Z.A. è riuscito a regolarizzarsi nel 1998 trovando lavoro presso un’azienda metalmeccanica italiana che lo ha assunto a tempo indeterminato come operaio specializzato, valorizzando la sua esperienza tecnica pregressa. Assicuratosi il lavoro, Z.A. ha cominciato subito a imparare la lingua italiana, frequentando un corso comunale di alfabetizzazione linguistica per gli adulti. Nel 2000 ha affittato un bilocale e ha avviato il ricongiungimento famigliare con la moglie e il figlio. Si è subito premurato di avviare al lavoro la moglie presso un parrucchiere italiano, mettendo a frutto i corsi di parrucchiera che la moglie aveva frequentato in Cina prima di emigrare. Ha iscritto il figlio alla scuola elementare locale e lo ha aiutato come meglio poteva ad apprendere l’italiano. Nel 2003 moglie e marito lavoravano regolarmente presso datori di lavoro italiani, mentre il loro figlio otteneva già buoni voti nella maggior parte delle materie.

Eppure oggi Z.A. si considera un fallito. Mantiene tuttora il permesso di soggiorno conseguito in Italia, ma l’azienda italiana per cui lavorava lo ha licenziato all’inizio del 2004 per esigenze di ridimensionamento dell’attività. Nel corso dell’anno, dopo aver tentato vari impieghi temporanei, ha deciso di rientrare in Cina e di affiancare suo fratello nella commercializzazione in Corea del Nord dei prodotti dall’azienda di famiglia. Ora per rinnovare il permesso di soggiorno si è dovuto accordare con un connazionale che - in cambio di un congruo compenso - è disposto a farlo figurare come un proprio dipendente. La moglie è rimasta a Milano, dove lavora alle dipendenze di una parrucchiera cinese, mentre il figlio - formalmente ancora residente in Italia - è stato affidato alle cure dei nonni in Cina, nello Zhejiang, a 1.200 km di distanza dalla città di frontiera a cavallo del confine nordcoreano dove lavora il padre.

Il progetto migratorio della famiglia di Z.A. è allo sfascio, proprio come il suo matrimonio.

Z.A. mi spiega che lui, come tanti altri suoi connazionali originari dello Zhejiang, era emigrato con l’intento di mettersi in proprio e di fare fortuna come imprenditore. Purtroppo in Italia non godeva di reti parentali ed amicali forti, e la scelta di optare per un lavoro subordinato presso italiani, se ha facilitato la sua regolarizzazione e accelerato l’acquisizione di una buona conoscenza della lingua italiana, gli ha impedito un’accumulazione del risparmio in grado di finanziare il consolidamento delle proprie relazioni sociali. Privo dell’accesso alle reti del credito fiduciario tra connazionali che sono alla base della rapida creazione d’impresa di molti immigrati cinesi, Z.A. è a malapena riuscito a ripagare i debiti contratti per pagarsi il passaggio clandestino, mentre molti suoi conoscenti cinesi giunti in Italia con lui sono oggi proprietari di piccoli negozi, trattorie o bar.

Quando si studia l’inserimento socioeconomico degli immigrati basandosi primariamente su fonti quantitative di carattere amministrativo, si fatica a cogliere pienamente quanto gli sforzi che gli immigrati compiono per conformarsi alle norme che sanciscono la regolarità del soggiorno somiglino a quelli di un adulto costretto a camminare calzando a forza gli zoccoli di un bambino: le logiche di sviluppo intrinseche alle dinamiche evolutive di ciascun flusso migratorio spesso non coincidono affatto con la concezione amministrativa/normativa del loro processo di “integrazione". Per molti immigrati, anzi, l’obbligo di conformarsi a tale visione rappresenta una pastoia da aggirare o un vincolo cui conformarsi meglio che si può, ma cercando di pregiudicare il meno possibile le loro possibilità di perseguire quegli auspicati percorsi di mobilità sociale che sono spesso la molla primaria dell’emigrazione.
L’integration, c’est une connerie ", ebbe modo di confidarmi un giovane ambulante senegalese, intervistato qualche anno fa: a suo parere, aveva migliori opportunità di mobilità sociale facendo l’ambulante abusivo che lavorando “regolarmente" per un datore di lavoro italiano che faceva figurare in busta paga solo la metà dell’orario di lavoro e della retribuzione reali. Tra la definizione implicita d’integrazione veicolata dalle leggi, quella proposta più o meno coerentemente dalla maggioranza autoctona attraverso le proprie rappresentazioni sociali ed i discorsi pubblici di senso comune, e infine quella auspicata per sé e per la propria famiglia dall’immigrato stesso vi è dunque uno scarto significativo.

Un’analisi seria dell’evoluzione dei fenomeni migratori deve perciò tenere conto dell’esistenza di questo doppio registro, della complessità che “l’integrazione dell’immigrato" esprime sia a livello concreto che a livello simbolico, immaginario e proiettivo. Da questo punto di vista, il monitoraggio periodico delle fonti di dati quantitativi relativi al fenomeno rischia di avvalorare una percezione puramente fenotipica ed eterodiretta dei processi di inserimento economico e sociale: necessaria, certo, ma non sufficiente per ottemperare appieno al mandato conoscitivo ed interpretativo che sottende a tale lavoro di costante aggiornamento delle informazioni sul fenomeno.

L’affinamento delle basi di dati e delle procedure di rilevazione, lo sviluppo di panieri di indicatori sempre più articolati e sofisticati deve dunque necessariamente interagire con il dispiegamento di indagini sul campo che possano combinare metodologie d’indagine quantitative con un intenso lavoro di ricerca qualitativa. È questa consapevolezza che ha guidato l’impegno dell’équipe di ricerca di Synergia nel corso delle indagini sul campo che hanno accompagnato idealmente, nel quadro del progetto EQUAL Empowerment realizzato in Lombardia tra il 2001-2004, il lavoro di elaborazione di un paniere di indicatori dell’inserimento socio-professionale degli immigrati che si è voluto testare anche in ambito europeo (cfr. Cologna D., Gregori E., Lainati C., Mauri L., Dinamiche di integrazione sociolavorativa di immigrati. Ricerche empiriche in alcuni segmenti del mercato del lavoro lombardo, Milano, Franco Angeli).

La lezione che ne abbiamo tratto può essere tradotta in quattro appunti metodologici che possono essere assunti come linee guida per un tentativo di comprensione vera del fenomeno attraverso la combinazione di metodologie quantitative e qualitative:

1. La ricostruzione della lettura che i migranti fanno della propria esperienza migratoria è altrettanto indispensabile della comprensione del modello d’inserimento espresso o implicito nell’insieme di vincoli normativi e amministrativi che rendono possibile la permanenza dell’immigrato sul territorio.

2. L’interpretazione dei dati e degli indicatori statistici dell’inserimento socioeconomico della popolazione immigrata deve prevedere un raffronto costante con il quadro che tali dati ed indicatori restituiscono rispetto alla popolazione autoctona e, possibilmente, tenere debitamente conto dell’insieme di rappresentazioni sociali che in seno a quest’ultima costruiscono simbolicamente il mercato del lavoro. Fenomeni di etnicizzazione e di stigmatizzazione di determinate occupazioni o di interi comparti produttivi, per esempio, possono essere compresi adeguatamente solo attraverso tale lettura critica dei dati quantitativi.

4. Le fonti utilizzate dovrebbero idealmente consentire il massimo grado di disaggregazione dei dati per ciascuna delle variabili fondamentali e in particolare per quella della nazionalità: solo così possono essere utili alla ricostruzione dei dati di sfondo per ciascun flusso migratorio, evidenziando le specificità dei processi in atto e permettendo di scomporre l’apparente uniformità delle dimensioni prese in esame. Malgrado la trasversalità dei condizionamenti imposti dal contesto rispetto alle dinamiche proprie di ciascun flusso, vi sono infatti specificità importanti che possono essere messe in risalto da un affinamento dell’elaborazione dei dati.

3. Last but not least , l’analisi dei dati quantitativi relativi ai processi di inserimento socioeconomici degli immigrati, per rivelarsi davvero efficace, deve potersi avvalere del confronto con dati empirici tratti dalla ricerca quali-quantitativa sul campo. Data la multidimensionalità e la rapidità di mutamento dei fenomeni migratori, tale ricerca ha spesso carattere eminentemente esplorativo e il lavoro etnografico vi svolge un ruolo chiave. L’approccio etnografico, spesso trascurato in virtù del forte impegno di tempo e di risorse che comporta, si è rivelato infatti un corollario indispensabile per una valorizzazione dell’analisi quantitativa e dello studio dei dati desunti da fonti amministrative, soprattutto in presenza di fenomeni migratori nuovi o sottoposti a rapida trasformazione.

Costruzione di indicatori, realizzazione di survey e ricerca etnografica sul campo sono dunque strumenti di ricerca che danno i risultati migliori quando vengono impiegati sinergicamente, valorizzando al massimo il loro potenziale euristico. L’adozione di una metodologia di ricerca sistematicamente “mista" rappresenta dunque una “buona prassi" la cui validità è confermata dall’esperienza e che può rappresentare una risorsa strategica di grande valore per osservatori e sistemi informativi sociali locali.

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