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The ICF and the charging of the disable

by Stefano Marturirni and Barbara Chicca

[Mutamento Sociale n.35 - May 2012]

The ICF or International Classification of Functioning, Disability and Health International brings together the legacy of a whole series of thoughts and experiences that have changed the ideas and culture of rehabilitation and social integration of disadvantaged people. The transition from the rehabilitation centered on the "defect" presented by the person, each time physical, psychological and / or social, to the rehabilitation centered on the potential of the subject and their possible development, has radically changed the theories and practices about aid and support.
On the basis of these premises, the article is focused on the relationship between the daily use of the ICF language and the process of the charging of the user by the system of services.

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L’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) raccoglie l’eredità internazionale di una molteplice serie di riflessioni ed esperienze che hanno cambiato le idee e la cultura della riabilitazione e dell’integrazione sociale delle persone in difficoltà.

Il passaggio dalla riabilitazione centrata sul “difetto” presentato dalla persona, volta per volta fisico, psicologico e/o sociale, alla riabilitazione centrata sulle potenzialità del soggetto e sul loro possibile sviluppo, ha cambiato radicalmente le teorie e le pratiche dell’aiuto e del sostegno.

Sostanzialmente, il lungo e minuzioso elenco di indicatori della classificazione relativi a praticamente tutte le possibili situazioni di vita della persona con disabilità sposta il concetto di disabilità dalla persona stessa al contesto: non è il soggetto a presentare inabilità, ma è il contesto fisico e sociale nel quale si trova ad agire che può rendere una persona inabile. Introduce quindi una forma di linguaggio “dinamico” caratterizzato da una costante azione e retroazione tra specifica funzione e contesto nel quale tale funzione si esprime, che si contrappone nettamente al linguaggio “statico” della pura constatazione diagnostica focalizzata sulla mancanza.

Adottare compiutamente il linguaggio ICF implica importanti trasformazioni sia culturali sia organizzative, a più livelli: politico, istituzionale, dei servizi specialistici legati alla disabilità e più in generale del contesto sociale nel quale la persona con disabilità è immersa.
Si rende necessario, in questa ottica, assicurare la continuità del sostegno tra i diversi servizi che si occupano della persona con disabilità, sia in senso orizzontale che verticale lungo tutto il percorso evolutivo, ad evitare “buchi” e cadute negli interventi che si verificano spesso nei passaggi da una fase alla successiva e che quasi sempre corrispondono ad un passaggio di competenze da un servizio ad un altro.
Si rende necessario altresì uniformare i linguaggi tra i diversi operatori e i diversi servizi, pur nel rispetto delle specifiche competenze “tecniche”, ma che devono collocarsi in un quadro omogeneo di visione, osservazione e programmazione ad evitare inutili, se non dannose, compartimentazioni.
Si rende infine necessario dotare, per ogni bisogno e per ogni fase evolutiva del bambino/persona con disabilità, il linguaggio ICF/ICF-CY di strumenti operativi condivisi, e dall’ICF dedotti, che consentano di declinarne i principi in azioni concrete sulla persona stessa e sui suoi contesti di vita.
Non ultimo è il problema di chi, nei diversi momenti e nelle diverse situazioni, si assume la responsabilità di “coordinare” i diversi interventi di sostegno spesso necessari e spesso contestuali sui diversi fronti e sui diversi bisogni della persona con disabilità, curandone non solo la puntualità e la garanzia dell’intervento, ma altresì la “coerenza” intrinseca dei diversi sostegni, coerenza che può solo derivare da una lettura condivisa prima, e da un progetto condiviso poi; una assunzione di responsabilità, si ribadisce, che costituisce il primo punto di una vera “presa in carico”.

Se l’obiettivo è il raggiungimento di un quadro condiviso di lettura e di linguaggi come l’ICF si presta ad essere, il movimento su cui la condivisione non resta sterile o peggio velleitaria, è la definizione istituzionalizzata e strutturata di una procedura di presa in carico che stabilisca chi, quando e con quali competenze si assume la “responsabilità” del soggetto.
Appare qui indispensabile chiarire che cosa si intende per “presa in carico”. Il concetto di presa in carico che qui si propone si riferisce al suo significato “storico” così come si è venuto delineando nelle esperienze di riabilitazione degli scorsi decenni.
Si è infatti sviluppata in queste esperienze una critica alla costruzione dei servizi alla persona centrati sul problema presentato dalla persona stessa (in contesti sanitari definito come “sintomo”). È sembrato che questo accogliere il sintomo, sulla base delle competenze possedute, escludendo il resto della persona, favorisse il processo di identificazione con il sintomo stesso. Un servizio costruito per rispondere ad una spina dorsale rotta è certamente diverso da un servizio costruito per rispondere ai bisogni di una persona che si è rotta la spina dorsale. La grande complessità del secondo modo di vedere appare immediata.
Il concetto di presa in carico quindi si sviluppa riconoscendo la necessità di accogliere tutti i bisogni presentati dalla persona in difficoltà e/o della sua famiglia e non soltanto quelli legati alle specifiche competenze possedute dallo specifico servizio.

Naturalmente accogliere l’interezza della domanda non corrisponde a possedere tutte le risposte necessarie. E qui nasce il secondo concetto, corollario della presa in carico: il lavoro in rete, perché solo attraverso una rete di servizi è possibile coprire se non tutta, almeno una grande parte della domanda reale posta dalla persona e/o dalla sua famiglia. Ciò vale a dire, per altro verso, che la costruzione di una rete ha senso solo ed esclusivamente quando c’è una “presa in carico”.
Non convince quindi il concetto di presa in carico quando si riferisce ad una responsabilità assunta all’interno di un singolo servizio perché appare semplicemente contraddittoria nell’ambito di una visione più complessa che si è dimostrata più e più volte maggiormente efficace nelle tante best practice che hanno fatto la storia dell’evoluzione del concetto di riabilitazione e di assunzione di piena cittadinanza.

Infine una ulteriore difficoltà che sembra necessario fronteggiare risiede nel cambiamento costante ed evolutivo dei bisogni della persona con disabilità e della sua famiglia, ai quali corrisponde l’esigenza di sostenerla e seguirla dalla fase natale sino all’inserimento al lavoro ed al successivo mantenimento dello stesso.
Ciò implica la necessità, come anticipato, di agire reti orizzontali e reti verticali, interventi sul qui ed ora ed interventi nella prospettiva evolutiva.

Un capitolo a parte merita poi l’intervento/coinvolgimento delle famiglie dei bambini/persone con disabilità.
Inutile sottolineare che il ruolo delle famiglie è cruciale in tutte le fasi evolutive della persona con disabilità. La fase più critica, per diversi ordini di motivi, riguarda la fascia 0-3 anni. Primo fra tutti siamo nella fase di formazione della personalità del bambino: ciò che si fa, e come si fa, in questo momento può determinare in grande misura il percorso futuro del bambino con disabilità. Ma anche nelle fasi successive, forse meno cruciali, ma non meno importanti, la famiglia ha un ruolo insostituibile nel dare/ricevere il corretto supporto. Così è per tutta l’attività di psico-motricità che richiede un’osservazione che non può/deve limitarsi al solo momento di intervento nel servizio, ma riguardare l’intero quotidiano del bambino nei diversi contesti di vita. Così dicasi dell’intervento vero e proprio che, progettato nel servizio, si estende anche qui all’intero arco temporale quotidiano e contestuale del bambino.
Successivamente, all’ingresso nella scuola, la compilazione del PDF vede la famiglia protagonista degli elementi valutativi funzionali necessari a programmare un serio/corretto intervento educativo, ed in particolare nella compilazione del PEI.

Si tratta cioè di garantire un flusso costante in andata ed in ritorno tra servizi e famiglie, perché non si può rinunciare alla famiglia nel percorso di sostegno, ma non si può nemmeno lasciare sola la famiglia che ha bisogno di acquisire competenze, ha spesso bisogno di “accettare” prima di ogni cosa, evitando ogni “negazione” del problema, negazione che rischia di invalidare gli interventi anche esemplari che servizi ed operatori svolgono a sostegno della crescita e dell’autonomia dei piccoli utenti.
Infatti è abbastanza comune osservare la difficoltà dei genitori dei bambini con disabilità nell’accettare i percorsi di autonomia del bambino. Maud Mannoni ha scritto in proposito, a testimonianza di quanto questa problematica sia comune in queste situazioni, che la madre di un bambino disabile, oltre a nutrire un profondo senso di colpa e in virtù di quello, non riesce a vivere il bambino come altro da sé, vivendolo piuttosto come una estensione “malata” del proprio corpo.

Infine la famiglia presente, e consapevole, in ogni momento del percorso di “abilitazione” costituisce anche il garante primario del rispetto dei diritti del bambino e della loro salvaguardia in ciascuna delle istituzioni con cui viene a contatto.

Non a caso, a conferma di quanto appena esplicitato, la classificazione ICF è stata adattata per i bambini e gli adolescenti, prendendo il nome di ICF-CY, che accoglie l’idea, da un lato, che tutti gli operatori devono avere una maggiore capacità di coinvolgimento in equipe e saper mettere il bambino ed il suo ambiente al centro della progettazione di cura e presa in carico dall’altro considera irrinunciabile il coinvolgimento attivo della famiglia. Tale adattamento CY è stato sviluppato per essere sensibile ai cambiamenti associati a crescita e sviluppo e sottolinea che in questo processo dinamico il funzionamento del bambino dipende dalla continua interazione con i familiari o altri care-giver nel contesto di vita di appartenenza e cioè ribadisce, ove ve ne fosse ulteriore necessità, che funzionamento di ogni bambino, in particolare quello con disabilità, non può essere pensato isolatamente ma piuttosto sempre e soltanto nel contesto di vita familiare all’interno del quale esso si esplica.

Stefano Marturini, consulente Fondazione Don Gnocchi
Barbara Chicca, Responsabile CeFOS, Centro Formazione, Orientamento e Sviluppo, Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus di Roma

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